Cedolare secca al 10% per i Comuni colpiti da calamità naturali

La cedolare secca nella sua versione più vantaggiosa è già realtà in tremila Comuni, grandi e piccoli, anche se non sono in tanti a saperlo.
Nell’attesa che il Cipe rimetta mano al nuovo elenco di Comuni «ad alta tensione abitativa» fermo al 2004 (avrebbe dovuto farlo entro fine giugno) ed estenda così la tassa piatta al 10% per gli affitti a canone concordato alle nuove realtà, già una parte molto consistente di Comuni italiani (anche senza essere in emergenza sfratti) può applicare il prelievo più vantaggioso sui redditi da locazione.
Si tratta dei Comuni colpiti da calamità naturali a partire dal 2009 e per i quali è stato decretato lo stato di emergenza. Qui, in base a una norma del decreto casa, (l’articolo 9 del Dl 47/2014), è già possibile, in modo di fatto automatico, optare per la cedolare secca, con l’aliquota più bassa, quella del 10 per cento. Una disposizione passata finora abbastanza sotto traccia, che “calata” nella realtà di un Paese, colpito da un grande numero di calamità naturali, acquista un peso notevole.
Nell’Italia delle frane, dei terremoti e delle alluvioni, lo stato di emergenza è una condizione, purtroppo, molto comune: solo negli ultimi sei mesi, ad esempio, sono stati richiesti dalle Regioni venti stati di emergenza per altrettante calamità.
La data di riferimento adottata dal decreto legge 47 è il 29 maggio 2009 (cinque anni prima dell’entrata in vigore della legge di conversione del Dl): gli stati di emergenza dichiarati da allora sono 32. Per poco non vi rientra il terremoto dell’Abruzzo, per il quale lo stato di emergenza è stato dichiarato poche ore dopo il sisma, il 6 aprile 2009, ma ne fanno parte a pieno titolo i Comuni di Emilia Romagna e Lombardia colpiti dal sisma del 2012, quelli della Sardegna, colpiti dall’alluvione dell’autunno scorso, e i 215 enti della Toscana danneggiati dalle piogge di gennaio e febbraio.
In questa (triste) classifica è proprio la Toscana con 702 Comuni inseriti negli stati di emergenza a dominare (ma attenzione, in alcuni casi lo stesso Comune può essere stato colpito più volte). A seguire l’Emilia Romagna, le Marche e la Liguria. L’elenco è lunghissimo (disponibile online) e composto soprattutto da piccoli municipi dove molto spesso il mercato dell’ affitto è modesto. Di fatto, però, i commissari delegati hanno quasi sempre incluso le realtà maggiori dei Comuni capoluogo negli elenchi dei territori danneggiati. E qui la musica cambia perché le province interessate sono tantissime e significative: tutta la Toscana, la Liguria, il Veneto, le Marche e il Piemonte, ad esempio, risultano coperti.

Anche se il perimetro dello stato di emergenza è abbastanza ampio, l’applicazione concreta della tassazione più vantaggiosa non è semplicissima per i proprietari. Un primo problema sta nello sfasamento temporale: la norma fa riferimento a stati di emergenza deliberati negli ultimi cinque anni. Per la Protezione civile molti di questi risultano già chiusi (lo stato di emergenza può durare al massimo 180 giorni, prorogabili per altri 180). Ma una lettura rigorosa della legge non sembra richiedere necessariamente l’obbligo di emergenza in corso. Anche perché i tempi del contratto di affitto concordato (3 anni più due di rinnovo) mal si concilierebbero con l’anno dello stato di emergenza.
La vera difficoltà potrebbe essere la mancanza di un criterio guida: il canone concordato infatti si applica in base a intese tra le associazioni di inquilini e proprietari, città per città, che definiscono i livelli del canone. In molti dei Comuni calamitati (fuori dal perimetro dell’alta tensione abitativa) questi accordi sono assenti. Come individuare dunque il giusto canone? Un aiuto potrebbe arrivare dal Dm Infrastrutture–Economia del 14 luglio 2004, che contiene i criteri per i contratti a canone concordato in assenza di intesa tra proprietari e inquilini. Il decreto invita a far riferimento al «Comune demograficamente omogeneo di minore distanza territoriale anche situato in altra regione». Dunque le parti devono attivarsi per scovare l’accordo più vicino.